03 novembre 2019

il difficile compito di parlare dei Tool

Dopo un'attesa interminabile (13 anni) finalmente un paio di mesi fa è uscito il nuovo album dei Tool. C'era così tanta aspettativa a riguardo che la delusione era quasi inevitabile, ma sull'altro piatto della bilancia c'è un amore talmente radicato per la band californiana per cui non ne parlerei male neanche sotto tortura.

Sì, vabbè, ma quindi com'è 'sto disco? Ecco, è veramente difficile parlarne, nonostante io lo trovi magnifico. Sì, perché le critiche che gli sono state mosse (tipo che non è "niente di nuovo" nella storia dei Tool, o che la struttura delle canzoni è molto simile) sono tutte comprensibili.
Da una band che è sempre stata all'avanguardia ci si aspetta qualcosa di più, lo capisco, soprattutto dopo 13 anni di attesa.

Ma il problema è che i Tool, come dissi anche riguardo al concerto, non sono di questo mondo. Sfuggono al gioco del "bello/non bello". Sono un'esperienza sonora in cui puoi tuffarti solamente da solo, in silenzio, possibilmente al buio, o passeggiando da qualche parte.
Le loro canzoni sono talmente tanto elaborate, strutturate e ponderate nota per nota, che devi prenderti del tempo per ascoltarle, non le puoi mettere in sottofondo mentre fai altro.
Devi lasciare che crescano, si diramino dentro di te, ti possiedano.

E qua succede il vero casino: oramai siamo abituati a fruire della musica in maniera talmente veloce, che un brano ci può anche conquistare, ma una settimana dopo, ne abbiamo già un altro in testa.
Lancio una provocazione: se uscisse adesso "Shine on You Crazy Diamond" dei Pink Floyd, chi avrebbe la pazienza di ascoltarla tutta, per poi riascoltarla e ascoltarla ancora?

Tutto questo per dire che son due mesi che ascolto "Fear Inoculum" e non ho ancora smesso. Sono ancora lì che lo esploro, che cerco di capire quale sia la mia canzone preferita, che seguo le linee del basso, e cose così. A me piace molto. Ma il giudizio non può che essere squisitamente personale. Alle fine la musica quello deve fare: emozionare me. Gli altri avranno la propria opinione.


30 ottobre 2019

stanchezza

Capisci di essere bollito quando ti addormenti sulla poltrona del dentista, mentre lui ti trapana un dente. Due volte in pochi giorni.
Poi ho cercato di vendergliela tipo "è perché ripongo molta fiducia in te", ma in realtà mi vergogno non poco.

06 settembre 2019

Goodbye Orange

Ieri sera ho terminato la visione dell'ultima stagione di Orange is the New Black.
Al di là del vuoto che può lasciare una serie che mi ha accompagnato per così tanti anni, sono anche contento che sia finita, perché ho una vera e propria allergia per le fiction che vengono tirate troppo in lungo (toc toc, Casa di Carta, questa era per te, anche se sei solo alla terza stagione).

Al di là dei fatti miei, vorrei dire che - tra annate ben riuscite e altre meno - ho trovato questa serie molto interessante per diversi motivi. Pur trattandosi di una realtà romanzata, ha il merito di averci fatto vedere da vicino le assurdità e le contraddizioni del mondo penitenziario e del sistema finanziario americano che in pratica, porta a delinquere anche coloro che riescono a uscire di prigione e, armati di tutta la buona volontà del mondo, cercano di reinserirsi nella vita normale.
Quest'ultima stagione, poi, mi è piaciuta particolarmente, perché (probabilmente condizionata dalla politica interna di Trump) punta l'occhio sulla questione "immigrazione" e tutti i problemi che ne derivano.

Tornando invece a una critica più allargata, devo dire che alcuni personaggi mi sono piaciuti particolarmente nella loro storia e conseguente evoluzione: la sfortunata Taystee, Suzanne e Nicky Nichols sono tra i miei preferiti. Ma il gradino più alto del podio lo concedo all'irrisistibile coppia Joe Caputo e Natalie Figueroa, innarrivabili per comicità; meriterebbero una sit-com a parte.

Un po' paraculo, ma molto bello il finale con le comparsate dei vari personaggi che si sono susseguiti negli anni. Devo ammettere che la lacrimuccia è scesa.


04 settembre 2019

l'Iliade vista da vicino

Una serie di episodi slegati tra loro hanno fatto sì che quest'estate mi ritrovassi ad avere a che fare con l'Iliade un paio di volte in pochi giorni. Potete capire quindi che se, sfogliando l'inserto di Repubblica con i libri consigliati sotto l'ombrellone, ho trovato in prima pagina La Canzone di Achille, l'ho preso come un segnale.
L'ho acquistato subito, anche perché non sono mai stato un gran studente e ogni volta che mi capita l'occasione di approfondire temi che avrei dovuto affrontare a scuola, sento come l'obbligo di tornare sui miei passi e colmare la lacuna.

La storia è parallela a quella dell'Iliade, solo che è vista (e raccontata) attraverso gli occhi di Patroclo, amico e amante di Achille. E qui parte la curiosità: quanti di voi sapevano che Patroclo e Achille fossero amanti? Io no di sicuro.
Non so se è attribuibile a un'istruzione scolastica conservativa, che negli anni 70 non accennava nulla di questo loro legame, o addirittura lo taceva. O se fossi io, che davanti a chiari segnali, al tempo non avevo ancora un vissuto tale da capire che ci fosse dell'omosessualità nel capolavoro di Omero.

Fatto sta che mi è piaciuto leggere questa versione meno epica e più romanzata dell'Iliade, dove il sentimento del timido Patroclo, quasi succube di un potente e valoroso Achille, diventa talmente forte da farlo diventare il perno dell'intera storia.

Per dovere di cronaca, aggiungo che l'autrice del libro, Madeline Miller, è una dottoressa di lettere classiche, che ha approfondito moltissimo i vari personaggi prima di scrivere questo libro, infatti ha dedicato più di 10 anni alla sua stesura.


17 luglio 2019

benvenuti in paradiso

Per controbilanciare le atmosfere pesanti di Chernobyl, in questi giorni mi sono fatto quattro risate guardando anche The Good Place.
Cos'è The Good Place? Una comedy serie nel classico formato americano di una ventina di minuti, in cui bisogna solo spegnere il cervello e farsi lasciare portare in giro dalla sua assurda storia.

Eleanor Shellstrop - una straordinaria Kristen Bell - è appena morta e si risveglia nella "parte buona" dell'aldilà, zona assai elitaria perché pochissimi vi possono accedere.
Il problema è che Eleanor in vita non è stata affatto una brava persona, bensì un'egoista e superficiale ragazzotta che lavorava in un'azienda che vendeva falsi farmaci agli anziani. Allora come è finita lì? Per un'omonimia che ha "salvato" lei e condannato un'altra donna. E lei ovviamente si guarda bene dal far notare l'errore.

C'è poco da fare: gli americani certe cagate le sanno fare ad arte. Le gag sono molteplici (fortunatamente mi hanno risparmiato le odiosissime risate registrate) e lo sviluppo della trama è un vortice da cui mi sono fatto assorbire completamente.
E poi c'è un Ted Danson - nella parte del creatore - in grandissimo spolvero.
Consigliato.


10 luglio 2019

il costo delle bugie

"Qual è il costo delle bugie?" si chiede lo scienziato Valerji Legasov, nella prima scena di Chernobyl, la serie tv andata in onda su HBO in questi giorni, che ripercorre i giorni del terribile incidente nucleare avvenuto nella centrale russa nell'aprile del 1986.
Una domanda che pesa come un macigno per tutte e 5 le puntate che compongono questo film a episodi.

Le bugie in questione, intese come verità non dette o celate, caratteristica assai presente nell'URSS ai tempi delle guerra fredda, portano con se due conseguenze.
La prima, più immediata, è quella di far vivere le persone all'oscuro della verità, per esempio minimizzando un disastro (che poteva essere di portata mondiale) e causando decine di morti, per non aver immediatamente evacuato città e paesi.
La seconda, che si sviluppa nel tempo, è quella di mascherare il tutto con altre menzogne, creando una spirale sempre più pericolosa che fa sprofondare tutto il castello di carte.

Emblematica in tal senso, è la bellissima scena del processo dell'ultima puntata, dove Legasov spiega le azioni e reazioni che regolano la fusione nucleare e da dove è partito l'errore che ha fatto esplodere il reattore n° 4 dell'impianto di Chernobyl.
Parallelamente, attraverso l'uso dei flashback, si capisce come è cominciato il disastro a livello umano e le relative conseguenze che hanno portato a quella tragica notte.

Qual è il costo delle bugie, quindi? A Chernobyl il costo è stato altissimo. E avrebbe potuto essere molto ma molto peggio, se non fossero intervenuti scienziati come Legasov, che hanno messo in gioco la propria vita in nome di un bene comune.


18 giugno 2019

Tool + Smashing Pumpkins live - Firenze Rocks

Difficile veramente trovare le parole per descrivere il concerto di Firenze di giovedì scorso. Specialmente se hai delle aspettative molto alte nei confronti di un gruppo e queste aspettative vengono superate.
E dire che fino a un minuto prima dell'inizio dell'esibizione dei Tool, ero lì che mi chiedevo chi me l'aveva fatto fare di andare fino a Firenze in un giorno infrasettimanale a patire il caldo e a vedere il palco praticamente con il binocolo. Sì, perché il famoso "Pit" (per i non avvezzi: la zona antistante il palco dove si entra solo con un biglietto quasi introvabile) del festival fiorentino è enorme. Talmente grande che relega noi sfigati con biglietto normale a godere del concerto da distanza siderale.

Ma andiamo con ordine: parto da Milano alle 13,40, con prima a tappa a Pavia, a prendere il buon Armando detto Paci, e seconda tappa a Genova, per raccattare anche mio nipote Giacomo. Alle 18,30 circa arriviamo a Firenze, con un discreto anticipo rispetto all'orario di esibizione degli Smashing Pumpkins, proprio come desideravo.
Sul luogo ci incontriamo con il mitico Andreone, milanese trapiantato a Roma già da qualche anno, che è arrivato da solo dalla Capitale.


Salgono gli Smashing Pumpkins. Con la formazione originale quasi al completo (manca solo D'arcy Wretzky), Corgan e soci danno vita a una performance live abbastanza fiacca che, come si può ben immaginare, trova i più alti riscontri di pubblico nel momento in cui vengono suonate le canzoni vecchie come "Bullet with butterfly wings" "1979" o "Cherub Rock". Non so se è per il caldo o - molto più probabilmente - per la mia abitudine a vedere i concerti dalle prime file, ma non riesco più di tanto ad appassionarmi. Mi sembra un live act di tanto mestiere e poca passione.

Alle 21,45 come da programma salgono sul palco i Tool. L'inizio è una tripletta terrificante, costituita da "Aenima" (probabilmente mia canzone preferita), "The Pot" e "Parabola" (altri due brani che adoro). La gioia mi esplode da ogni poro. A poco a poco mi succede una roba strana, che con non poca difficoltà cercherò di descrivervi.
Passato l'entusiasmo iniziale quasi bambinesco, inizio a farmi assorbire veramente dal concerto. I suoni sono praticamente perfetti, loro sono magnificamente sincronizzati, le luci sono pazzesche. Mi parte una sorta di sindrome di Stendhal in cui fagocito tutto: luci, colori, musica; e ne respiro a pieni polmoni.


Ma il vero transfer comincia quando il gruppo suona "Descending", il primo inedito tratto dal disco che uscirà ad agosto. La canzone non la conosci, quindi non canti, ma bensì cerchi di ascoltare ogni singola vibrazione. E lì, davanti a uno spettacolo audiovisivo incredibile, capisci la grandezza dei Tool: sono talmente fighi dentro, che non conta se sei a 40 metri da loro, non conta se Maynard si intravede nel buio, non conta se Adam e Justin si muovono appena sul palco. Loro giocano una partita totalmente diversa dai normali gruppi rock. Anzi non è neanche lo stesso fottuto campo da gioco (citando Pulp Fiction).
È come se loro quattro fossero solo una parte dello show, tipo l'orchestra all'opera.
Gli schermi proiettano immagini "alla Tool" (vedi i loro video), le luci fanno cose mai viste a un concerto (semmai a uno spettacolo teatrale tipo La Fura dels Baus): si alzano, si girano, si abbassano, cambiano assetto, ecc. E la musica è perfetta. Riconoscibile, perché il marchio di fabbrica è quello, ma nuova. Una sinfonia di chitarre pesanti, basso dai suoni assai singolari e batteria martellante. Pubblico in religioso silenzio.
Finito il pezzo la platea esplode e mi sembra di assistere a un evento di quelli che "d'ora in poi non sarà più la stessa cosa".
Da quel momento in poi sono completamente in trance. A un certo momento, su "40 six & two", sono talmente euforico che abbraccerei anche gli sconosciuti.
Finisce dopo un'ora mezza di esibizione (come a Milano nel 2006), ma che razza di concerto, ragazzi!

16 aprile 2019

effetto Massi

Si chiama "effetto Massi" quando scopri un cantante o un gruppo che gli altri conoscono da 5, 10 o addirittura 15 anni e ti piace particolarmente, quindi ti senti un po' fuori dal mondo.
Il nome prende spunto da Massimo Federico che ogni tanto ammette di essere venuto a conoscenza di tale band ben in ritardo rispetto alle persone che si aggiornano con una certa costanza.

Beh, io mi considero uno che si aggiorna abbastanza, ma fino ad oggi mi sono completamente fumato i Black Stone Cherry. Il gruppo americano - ormai prossimo ai 20 anni di carriera - fonde il southern rock con dei riffoni di chitarre distorte e il risultato è più che piacevole alle mie orecchie.
Talmente piacevole che mi chiedo come mai nessuno me li abbia segnalati e mi ritrovi costretto a ringraziare YouTube che me li ha messi nelle orecchie dopo qualche video preso tra i miei preferiti.

Beh, oramai mi sono fatto una playlist su Youtube e me li ascolto a manetta da una settimana.
Best song, questa qua:

22 marzo 2019

il lato (quasi) serio di Ricky

E così, grazie alla serie After Life, scopriamo che Ricky Gervais sa anche recitare.
E pure fare il regista.
Per quegli sprovveduti (purtroppo sono tanti) che non lo conoscono, dovete sapere che Gervais è uno dei più grandi stand up comedians dei nostri giorni. I suoi spettacoli sono dissacranti, offensivi, politicamente scorretti ma anche terribilmente divertenti.
Così, in questa serie da lui prodotta, scritta, girata e interpretata, il comico inglese ci mostra anche il suo lato più triste e serioso. La trama infatti parla di un articolista per un giornale locale, che ha appena perso la moglie per un cancro, tema assai delicato.

Ma proprio qui sta la grandezza di After Life: saper alternare momenti di grande tristezza e commozione, con battute fulminanti e situazioni assurde. Un po' a ricordarci che la vita va avanti nonostante le disgrazie. Anzi: probabilmente sono proprio queste disgrazie a farci capire che bisogna vivere appieno ogni momento e saperselo gustare.

In totale sono sei episodi da mezz'ora. Ce la potete fare, dai.

i dialoghi tra vedovi sulla panchina del cimitero: le parti che mi sono piaciute di più della serie.

26 febbraio 2019

Sex Education

Otis è un ragazzo molto timido e parecchio imbranato, che vive in una bellissima casa insieme alla madre separata. Al contrario, Maeve è una ragazza spigliata e molto diretta, con una famiglia difficile alle spalle. Insieme saranno la “strana coppia” che si occupa dell’educazione sessuale dei ragazzi che frequentano il loro stesso liceo.


Detta così sembrerebbe un campionario di stranezze e confidenze di un gruppo di adolescenti (cosa che in parte c’è, per il divertimento del pubblico). Ma "Sex Education" va al di là di questo e ci mostra la vita, gli amori, le debolezze e le avventure della nuova generazione di adolescenti.

E perché dovreste vederlo? Potrei sbrigarmela facile con un "a me è piaciuto", ma la realtà è che abbiamo bisogno di emozioni e non c'è un'età fragile e sensibile come l'adolescenza per rivivere quello che è stato il nostro periodo di maggiore crescita sia caratteriale che fisica.
Ma perché dovreste vedere proprio questo teen drama e non un altro? perché ha grandi momenti di ilarità ma anche diverse scene in cui ci si commuove. O forse perché c'è in mezzo di tutto: verginità, omosessualità, gravidanze indesiderate, bullismo, e tanto altro. Ma anche perché per una volta non ho avuto la sensazione di "brodo allungato" che diverse serie mi comunicano.

Passando al lato tecnico: regia impeccabile, fotografia perfetta e interpreti tutti bravi. Una menzione speciale va a Gillian Anderson (ve la ricorderete tutti in X-Files), psicanalista e sessuologa, nonché madre di Otis, in una parte fenomenale. 




16 febbraio 2019

Feral Roots

Il nuovo disco dei Rival Sons è una bomba. Già.
Non so se sia il passaggio alla nuova etichetta, oppure il completamento di un percorso di maturazione artistica o non so cos'altro, fatto sta che Feral Roots è una bomba.
Mi piacerebbe argomentare meglio, spiegarvi nei dettagli il perché, ma non sono un critico musicale, sono solo un appassionato di musica (rock, soprattutto) e posso dire che sin dal primo ascolto la nuova fatica del quartetto di Long Beach mi è apparsa come la punta più alta della loro carriera.

Lo ascolto oramai da due settimane, almeno una volta al giorno e non ci ho trovato una canzone brutta. O meglio: non riesco a trovarne una preferita, perché cambio di giorno in giorno.
"Do you worst", il singolo che ha anticipato l'album, l'avevo archiviata nella mia testa un po' troppo facilmente, perché mi sembrava molto o addirittura troppo simile a quanto fatto dalla band fino a questo momento.

Ma con l'album, ecco arrivare delle cannonate come "Sugar on the Bone", "Back in the Woods" o "Too Bad" e ti scappa un "porca troia" dalla grinta e dall'intensità di ciascun pezzo.
E vi dirò di più: le cosiddette ballad, che skippo con estrema facilità nei dischi rock, mi piacciono da impazzire.
Per me disco imperdibile.



30 gennaio 2019

billy bob and friends

Potrebbe sembrare un paradosso, però, nonostante io guardi un sacco di serie tv, ho difficoltà a trovarne una che veramente mi coinvolga. Quelle proprio che non vedi l'ora di vederne la puntata successiva. Mi manca la sensazione che ti dava Game of Thrones quando dicevi "no, e adesso come faccio ad aspettare una settimana?".
Un po' penso sia colpa del binge watching; un po' forse sono le troppe ore di visione, per cui diventa sempre più difficile trovare qualcosa che si erga veramente dal mare della mediocrità.

In una moltitudine di serie più o meno carine, secondo me Goliath merita un plauso.
Il protagonista è Billy Bob Thornton, attore che io adoro, che interpreta un ex avvocato di grido, nonché fondatore di un mega studio legale, che oramai si dedica solo a piccoli casi.
Finché un giorno non si deve scontrare proprio contro la sua ex azienda nonché contro il suo ex socio (William Hurt) e la sua ex moglie (Maria Bello). Questo vagamente il sunto della prima stagione.

Nella seconda lo incontriamo dopo un po' di tempo, ritirato quasi a vita privata, ma che non può esimersi dall'aiutare un amico, il cui figlio si trova in grossi guai.
Ecco, la seconda stagione secondo me è molto meglio della prima, perché si allontana un po' dal legal drama classico e si sposta più sul lato personale, sugli affetti e sulla personalità del protagonista.
E Billy Bob, con la sua faccia vissuta, è l'interprete perfetto. Si soffre insieme a lui e ci si affeziona al suo mondo strampalato.

Due stagioni di 8 puntate da un'ora scarsa ciascuna, che secondo me vale la pena vedere.
Se avete Amazon Prime Video non dovete neanche fare lo sforzo di scaricarlo.


18 gennaio 2019

il problema dei Queen

Poco prima di Natale è uscito "Bohemian Rhapsody", il film su Freddie Mercury, ed è stato un gran successo al botteghino, tanto che fra poco, mi hanno detto, uscirà pure la versione "karaoke" del film, in cui - nei momenti musicali - si potranno cantare le canzoni insieme ai Queen.
Lasciando perdere il senso di schifo che mi dà l'idea di una sala con 200 pecoroni che cantano insieme canzoni strafamose (non è quello che forse faccio anche io ai concerti???), devo dire che ho sempre avuto un problema coi Queen. Ed è difficile parlarne senza sembrare snob.

Avendo due fratelli più grandi, la mia formazione musicale è stata un po' prematura rispetto a quella dei miei coetanei. I primi 33 giri che sono entrati in casa mia erano dei Dire Straits, quando avevo 10 anni. E per la musica, così come per il cibo, o altro, il gusto si sviluppa, si evolve, esplora.
Quindi a 14/15 anni ascoltavo i Pink Floyd, gli Iron Maiden, gli AC/DC, gli U2. Anche tanta rumenta, per carità, non lo nego.
Però - fatto salvo per poche canzoni - i Queen li ho sempre trovati troppo pop e pure molto furbetti.
E così, nel periodo in cui godevo a sentire le chitarre distorte e i riffoni di chitarra, le canzoncine tipo "We will rock You" o "We are the Champions" mi sembravano delle gran paraculate.
Non mi dispiacevano gli assoli di Brian May, per carità, ma - prima ancora di saper dell'esistenza del marketing - tutte quelle strizzatine d'occhio al pubblico, con i ritornelli facili da cantare non mi sono mai piaciuti. Mi vantavo di essere più duro e puro.

Ricordo quando uscì "Radio Ga-Ga", probabilmente una delle canzoni più brutte che abbia mai sentito ad opera di un gruppo rock, che veramente ebbi un moto di schifo. Quando passava alla radio, abbassavo il volume o cambiavo stanza (cambiare stazione non era contemplato).
Insomma, tutto questo per dire che ho seguito attentamente la carriera dei Queen, ma sempre da lontano, senza che entrasse nel mio spettro musicale.
E adesso che con questo film vengono ancora più osannati dal grande pubblico, io guardo tutti dal mio piedistallo snob, e dico: "bah, musica per chi non ne capisce".



02 gennaio 2019

Buon anno!

E così, come se niente fosse, ricomincio a scrivere sul blog. Sarò costante? Riuscirò a trascrivere qua la valanga di pensieri e avvenimenti che mi succedono? Sinceramente sono abbastanza pessimista a riguardo, però non si sa mai.
Il primo pensiero è che peggio dell'anno scorso - con ben un unico post - non posso fare, anche perché con questo che sto scrivendo ho già pareggiato i conti.

Cosa è successo in questo ultimo anno? Tante cose, ma niente di particolarmente strano.
Sicuramente l'ha fatta da padrone Anita e la sua preadolescenza. Ma questo è un discorso lungo e difficile da trattare.
Il lavoro continua, benché sempre più precario.
Insomma, per farla breve non è stato un gran periodo e le premesse non sono proprio eccellenti; ma chissà che questo 2019 non mi riservi qualcosa di inaspettato e di positivo.